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IL BIANCOMANGIARE DI FEDERICO II
Articolo inserito il 13/01/2018 alle ore 15.50.12
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Federico II è forse il solo personaggio del Medioevo che sia riuscito a trasformare la sua vita in mito, leggenda, poesia, conquistando la solidarietà morale e culturale anche del più accanito dei suoi detrattori. Ad onta dell’odio angioino, che dopo Benevento e Tagliacozzo fece terra bruciata di tutto ciò che poteva richiamare la grandezza degli Svevi, la leggenda di Federico continuò a diffondersi e a vincere, per dirla col poeta, “di mille secoli il silenzio”.
Nel “Novellino”, il più autorevole antenato del “Decamerone”, Federico è l’imperatore per antonomasia, ed è protagonista di ben sette novelle: viene definito “specchio del mondo”; proverbiali sono il suo splendore, cortesia, magnanimità; la sua corte ospita da ogni parte del mondo musicisti, artisti e poeti, e gli echi delle riunioni festose, di intrattenimenti e raffinatezze mondane, della gioia di vivere volta all’attimo fuggente, improntano indelebilmente la memoria dei contemporanei.
Dante, che pure lo pone nel sesto cerchio, tra gli eretici, riconosce in lui l’ultimo imperatore dei Romani, e lo loda, insieme al suo “benegenitus” figlio Manfredi, per aver saputo, al massimo grado, esprimere tutta la nobiltà del suo spirito, sdegnando ogni banalità e volgarità.
Non è un fatto da poco. Agli occhi di Dante, Federico II incarna a differenza dei monarchi del suo tempo, quella monarchia universale che, dopo la caduta dell’impero romano, solo Carlo Magno si era impegnato a restaurare, legittimandola cristianamente nella difesa della Chiesa. E della monarchia universale Federico pose realmente le basi, se non politiche, certo culturali, con quel cosmopolitismo che, anticipando di oltre due secoli il Rinascimento, aprì l’Europa a quel patrimonio di cultura greco-latina di filosofia, medicina, letteratura, scienza, che era stato gestito dall’Islam, e l’Occidente ignorava quasi del tutto. In quest’ottica vanno visti gli intensi rapporti col mondo arabo; in quest’ottica vanno considerati i legami strettissimi che Federico intrecciò con la cultura di diversi Paesi europei; in quest’ottica va, ancora, vista la fondazione, con la scuola siciliana, della letteratura italiana, che accusava, rispetto alle altre letterature romanze ed europee, un ritardo di due secoli.
Oggi possiamo aggiungere nuovi argomenti per confermare la genialità e la precocità dell’opera di Federico II, che, in virtù del suo universalismo culturale, patrocinò anche nel campo della dietetica e della gastronomia un salto di qualità straordinario.
In un recente volume “I ricettari di Federico II” (Olschki, Firenze 2005), Anna Martellotti, attraverso un esemplare studio filologico e comparativo dei maggiori ricettari medievali a noi pervenuti in copie posteriori – il “Liber de coquina”, il ‘Tractatus” il “Libro de la cocina” e il cosiddetto “Meridionale” – mette ordine su un argomento che la critica non aveva mai considerato nella sua globalità, perdendo di vista, nell’esame dei singoli codici, la matrice comune che, invece, li lega.
La Martellotti, infatti, dimostra, con argomentazioni inappuntabili desunte dai dati interni alle opere, che questi ricettari, redatti rispettivamente in latino parlato, latino letterario, volgare toscano e volgare meridionale, non possono che essere stati ispirati da Federico II, e dunque elaborati nella sua corte.
Tanto più che, se le ricette riferite direttamente a Federico II (come i cavoli “secundum usum imperatoris”) o all’ambiente federiciano (come i fagioli ad “usum marchie trivisine”, o le cime di rapa a usanza dei marchesi, e la Marca trevisana rinvia senza ombra di dubbio a Ezzelino da Romano, alleato di Federico II) non sono numerose, molteplici sono invece le testimonianze in trattati gastronomici successivi, del 400/500, sul ruolo decisivo che Federico II e suo figlio Manfredi ebbero anche in questo campo: vi vengono infatti citati piatti come le “frittelle dell’imperatore”, la “torta manfreda”, la “torta manfreda di fava fresca”, ecc.
Si pensi, poi, che, come sottolinea F. Braudel, prima del secolo XV o XVI in Europa non esiste un vero e proprio lusso della tavola, e sotto questo aspetto l’Occidente fa segnare un notevole ritardo rispetto ad altre civiltà. Si consideri, ancora, che nell’Occidente medievale, vuoi per la tradizione millenaria della frugalità romana continuamente riciclata, vuoi per i modelli di sobrietà propagandati dalla Chiesa, non c’è spazio per le raffinatezze gastronomiche, e non ce ne può essere anche perché mancano le risorse in termini di conoscenze. Federico II, invece, possedeva un’imponente biblioteca, in parte ereditata dai re normanni, che annoverava libri provenienti da ogni parte del mondo: in quale altra fucina si sarebbero potuti redarre ricettari in volgare, tradurli in latino, con il sostegno di cuochi esperti e di medici ferrati nella dietetica araba?
Federico era molto sobrio a tavola: una delle sue pietanze predilette era il cosiddetto biancomangiare, che, piuttosto che un particolare piatto, sembra designare una serie di piatti con alcuni ingredienti in comune, in particolare il latte e le mandorle. Il biancomangiare poteva essere di carne o di pesce, o anche, per i giorni di magro, di semplice semola cotta nel latte, con pepe e zafferano, la cosiddetta “simula sicula”, la semola siciliana. La carne del biancomangiare era costituita da petti di pollo, sfilacciati finemente e cotti nel latte, in cui erano state stemperate farina di riso e mandorle tritate. In una variante anziché la farina era usato il riso in chicchi. Si tratta, comunque, di una rielaborazione alleggerita di un piatto arabo, che non manca, nella versione originale, nei ricettari menzionati (il brodo saraceno, il bianco-mangiare di Siria, il “blaundysorye”), e che doveva essere molto meno digeribile, contemplando petti e fegatini di capponi arrostiti, pestati nel mortaio con pane abbrustolito e quindi bolliti con prugne, datteri, uva sultanina, mandorle e lardo. L’intervento di Federico in questi ricettari è ulteriormente sottolineato dalla compresenza, in linea col suo cosmopolitismo, di piatti che rinviano a diversi Paesi.
Infatti in questi trattati, oltre a ricette tipicamente italiane, come la “simula sicula”, o quelle “ad usum romanorum”, “ad usum campanie”, “ad usum marchie trivisine” “ad usum lumbardicum”, per non dire quella “ad usum imperatoris”, ce ne sono in abbondanza “ad usum anglie”, “francie”, “Yspanie”, “ad usum provincialicum”, “ad usum theutonicum”. A scorrere questi ricettari appare evidente che la più vistosa differenza con la nostra cucina sta nei condimenti, che fanno larghissimo uso di spezie. Un esempio: per la salsa verde vengono citati ingredienti in uso tuttora, come prezzemolo, aglio, mollica di pane, aceto (non si fa menzione né di olio, né di acciughe), ma vi si aggiungono cardamomo, garofano, menta, noce moscata, zenzero. Ancora, per friggere, ma anche per i soffritti dei brodi, sia di carne che di pesce, si usa soprattutto il lardo. Nella preparazione degli arrosti, nelle salse di accompagnamento e nelle farciture, rientrano tranquillamente non solo succo di limone o d’arancia amara (non esistendo ancora la dolce), ma, in abbondanza, zucchero e miele, in un composto agro-dolce.
Ancora, si può notare che tra gli animali commestibili non mancano proposte che oggi sembrerebbero strane, come i cigni, le gru e i pavoni; pur tuttavia le ricette riguardano in prevalenza animali domestici, tra i volatili il pollo (nella sezione “De animalibus” del “Liber”, che comprende tutte le carni, di volatili e non, quasi la metà delle proposte cucinarie riguarda i polli), tra gli altri maiali e castrati. Alla Mitteleuropa rimandano gli gnocchetti fritti, le crespelle e le frittelle, per accompagnare le pietanze al posto del pane. Decisamente più semplici i piatti di pesce, in preparazioni che, con qualche lieve correzione, potrebbero essere proposte anche oggi.
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