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La cucina delle province siciliane: Palermo
Articolo inserito il 01/11/2007 alle ore 15.20.58
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I piatti delle varie province siciliane, sia quelli raffinati che quelli popolari e contadini, rispecchiano gli usi alimentari dei diversi popoli che nei secoli si sono avvicendati sull’Isola. In Sicilia la cucina è arte antica e rappresenta l’amalgama perfetto delle influenze delle diverse culture che vi approdarono da ogni angolo del Mediterraneo. La tavola resta il luogo d’introspezione delle diverse civiltà. Una chiave di lettura per ogni provincia: ne racconta storia e civiltà, influenze, miserie e opulenze. Prodotti della terra che vengono da ricchi feudi o pietraie arse dal sole, da coste benedette dal mare o dolci colline ricche di frutti e verdure. Siete nel regno dei sapori e non vi resta che gustarvi la Sicilia.
A titolo di cadeau abbiamo aggiunto una ricetta tipica per ogni capitolo. E’ un nostro piccolo omaggio a quelle donne che le inventarono. Chissà quando.
PALERMO
Cucina d’immagine quella palermitana, segnata da una impronta aristocratica che si rivela nella ricchezza dei sapori e nelle combinazione dei gusti. A cominciare dagli antipasti che sono un vero arcipelago saporito. Sapori d’ingresso, preludio a raffinatezze da Monsù. La regina è la caponata di melanzane con quell’agrodolce che ci arriva dritto dritto dalla cucina di corte della Persia preislamica. E poi le frittelle di carciofi, fave e pisellini profumati di aceto per stuzzicare l’appetito. Tuffatevi pure nel mare delle “panelle” di ceci, “cazzilli” di patate, gamberetti marinati, tiepide insalatine di mare, tortini di verdurette, mille cose sottolio.
La gloria è tutta al sapore di grano duro: la pasta, nata da queste parti oltre mille anni fa. Si esalta con pomodoro e basilico, con i broccoli “arriminati”, con l’anciova che sarebbe l’acciuga salata dissolta nell’olio d’oliva e con il pangrattato sopra, formaggio dei poveracci. Il bucatino coniugato alle sarde è il massimo a cui umana mente poté arrivare. Superata, forse, dal gattopardesco timballo di maccheroni in crosta che da solo esprime l’aspirazione al sublime. La carne, come commestibile, non esiste neppure come termine nel dialetto siciliano. Si diceva “càmmaru” che, stando al celebre antropologo Giuseppe Pitré, viene dal verbo “cammaràrisi”, cioè il mangiare di grasso concesso ai monaci ammalati. Prevedendo le varie Regole il magro, questi erano autorizzati a consumare carne “in camera”. Agnelli e capretti, quindi la fanno da padrone. Assieme al maiale che vede i suoi momenti di gloria dall’8 dicembre, data tradizionale in cui compare in tavola, fino al Carnevale quando scompare assieme alle maschere ed alle follie dei travisamenti. Furono i cuochi delle grandi famiglie, i Monsù, a creare ricette per rendere mangiabile la carne dura e fibrosa di vecchie mucche. Inventarono la carne vaccina “farcie de maigre”, cioè farcita di verdurette e odori che, poi, nella interpretazione popolare divenne quel “farsumagru”, cioè falso magro riempito di ogni sorta di ben di Dio. Lontano anni luce dal delicato piatto di partenza. Succede quando non si conoscono le lingue.
E’ il pesce la vera magia della tavola palermitana. Già una grigliata di pesce è una passerella di sapori, colori, odori che rivelano una sapienza antica. Cucina marinara assai ricca che parte da miserabili sardine marinate con il succo di limone o di mandarino, fino a quelle diliscate, fritte e profumate di aceto che chiamano “a linguata”: intendendo così l’elevazione al rango di “lenguado”, sogliola in spagnolo, di quell’economico pesce. Oppure onorate a beccafico. Il pesce viene rispettato e non arricchito di salse coprenti, questo il vero segreto del pesce a Palermo. Trigliceridi permettendo non arrendetevi davanti alle fritture: di gamberi, di totani, di calamari, di triglie, nasellini, boghe e quanto altro offre quel giorno il mercato.
Pure i vegetariani trovano di che deliziarsi. Melanzane alla “parmiciana”, cioè come le scalette di una persiana che parmiciana si chiama in dialetto. Il cacio di Parma? Non c’entra per nulla. E poi quelle piccoline “ammuttunàte” cioè steccate di menta, sale e pepe, aglio e caciocavallo. I peperoni infornati, imbottiti, sott’olio, carciofi e broccoli, cardi fritti in pastella, affogati; oppure verdure “assassunate” cioè “assaisonnées” come dicevano gli antichi Monsù, cioè saltate in padella con l’aglio soffritto nell’olio d’oliva, antichissima ricetta che viene dalle comunità ebraiche.
Lasciatevi sedurre dai pecorini: ricotta, primo sale, tuma, cannestrato, fino a quel delicato caciocavallo fatto di latte vaccino delle nere vacche “cinisare”. Quelle nere che vagabondano ai lati dell’autostrada per Punta Raisi.
Non perdetevi il caciocavallo dell’argentiera cucinato a bagnomaria con origano e due gocce d’aceto. Un vero “trompe l’oeil”: sparge attorno odore di coniglio in agrodolce quel povero piatto!
E poi c’è la rosticceria che nessuno chiama più “tavola calda”. Peccato. Quel “calda” rimandava a coccole, vezzeggiamenti, piccoli caldi piaceri.
Dulcis in fundo: la pasticceria palermitana. Barocca come coloro che la concepirono nel corso dei secoli. La cassata in primis, ma fasulla purtroppo: quella che conosciamo è stata creata alla fine dell’Ottocento dal pasticciere Salvatore Gulì. Ma non diciamolo in giro.... Quella vera, antica di millenni, c’è ancora e si chiama “cassata al forno”.
Ci sono ancora tanti cannoli, frutta candita, teste di turco di Castelbuono, seni di vergini conventuali, paste di mandorle, la zuppa inglese creata per Lady Hanilton e mille delizie ancora che rivelano come i palermitani non siano mai stati intimiditi da trigliceridi e colesterolo.
Il gelato resta, in ogni caso, la vera follia palermitana. Una scelta vastissima tra granite, spongati, sorbetti, pezzi duri o morbide coloratissime creme da cono. Sogni di fresche delizie per sopportare interminabili, afose giornate estive.
RICETTA
Carne impanata alla palermitana
Grammi 500 fettine di carne di vitello
Grammi 70 pangrattato
Origano, sale e pepe, olio d’oliva
Versate in una ciotola l’olio con sale e pepe. In un piatto largo il pangrattato con l’origano, sale e pepe. Mettete la fettina nell’olio, poi nel pangrattato pressando con la mano, e sistematela, quindi, in una teglia appena unta d’olio. Passate in forno caldo per un quarto d’ora.
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