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Babbalùci di Sicilia: delizia di baroni e villani
Articolo inserito il 30/07/2007 alle ore 22.22.10
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“Ziti a vasàri e babbalùci a sucàri nun pònnu mai saziàri” che sarebbe un italico “innamorate da baciare e lumachine da succhiare non possono mai saziare”. Con il termine “babbalùciu”, al singolare, dal greco arcaico “boubalàkion” che sta per piccolo bufalo per via delle corna, si intende la Helix pisana, piccola e biancastra, che è comunissima sopratutto nei dintorni di Palermo e Trapani. Anche se i palermitani non disdegnarono i “babbaluci cilesti”, cioè la Jantina communis dalla conchiglia fragilissima e di color ceruleo che un tempo si trovava in abbondanza nel golfo di Palermo. Vera ghiottoneria furono altre due specie marine: la Natica millepunctata (oggi rara) e la Natica castanea.
Quella terrestre, raccolta aggrappata alle stoppie, è la vittima
sacrificale per festeggiare degnamente il Festino, l’ultima grande festa barocca europea. Una sorta di immenso ex voto popolare per Santa Rosalia che liberò la città e i suoi abitanti dalla peste del 1624. Sono centinaia di ceste, quintali di queste lumachine “cornute” che i palermitani consumano in quella occasione, accompagnandole con vino abbondante malgrado i 40° all’ombra.
Sono tre le famiglie di lumache terrestri conosciute in Sicilia. Anche se esiste una notevole confusione nei nomi a seconda delle zone linguistiche.
Alla famiglia più numerosa e nota appartengono i babbalùci, voce ufficiale della lingua siciliana, con cui s’intendono le chioccioline appartenenti alla famiglia della Helix pisana. Quel termine si complica nelle varie province diventando vavalùci, cazzicàddi e bucalàci.
Alla seconda famiglia appartengono gli “attuppateddi” Helix naticoides, caratterizzati da una membrana mucoso-calcare che chiude l’apertura del nicchio testaceo. Sono comunissimi nelle terre argillose dopo le prime piogge autunnali Si difendono dalla calura rifugiandosi a oltre un palmo di profondità. Quando escono dal loro rifugio sono ricoperti di fango per cui vengono detti “attupateddi nìuri”. A seconda delle varie zone linguistiche isolane prendono nomi bizzarri come izzu, scaùzzu, scataddìzzu, munacheddi…
La terza famiglia è quella dei “crastùni”, Helix vermiculata, italiana vignaiola o martinaccio. Il colore è bruno-verdastro. Per questo motivo vengono indicati anche con il nome di “setti sordi” o “carrìnu”, rassomigliando ad una di quelle monetine in rame che si ossidavano diventando verdastre quando si perdevano in campagna. Ma pure barbàniu, muntuni…
Conchiglie delle tre specie e marine, sono state rinvenute in grotte e insediamenti umani più antichi: quando si provvedeva alla raccolta del cibo. Non mancavano nella grotta di San Teodoro nel messinese dove è stato recuperato lo scheletro più antico di Sicilia, vecchio di oltre 11.000 anni. E’ quello di una giovane donna, integro in ogni sua parte. Fu chiamata “nonna Tea” dai suoi scopritori.
Sapevano sicuramente sin da allora che le lumache, prima di essere preparate, vanno “spurgate” cioè tenute a digiuno per almeno tre giorni. Lo dimostrano alcuni reperti fittili, custoditi al Museo Paolo Orsi di Siracusa, consistenti in una sorta di recipiente circolare di circa cinquanta centimetri di diametro, poco più di quindici di altezza, con un coperchio a piccoli fori per permetterne l’aerazione!
Oggi si alimentano per tre o quattro giorni con farina, crusca o pane raffermo, in un cesto ricoperto di uno strofinaccio in attesa di essere cucinati. Si usa principalmente con “crastuni” e “attupateddi” perché, uscendo dal letargo brucano qualsiasi vegetale, erbe velenose comprese, che per loro non sono dannose, ma tossiche per gli umani.
LE RICETTE
“Babbaluci a picchi pacchiu”
Dopo averle lavate ben bene si pongono in un tegame il cui bordo si ricopre di sale umido facendo attenzione a non farlo cadere nell’acqua. Si comincia con un fuoco bassissimo che permette di fare uscire le malcapitate dal guscio. Appena saranno stordite si alza la fiamma, si aggiunge il sale e si lasciano bollire per qualche minuto e quindi si scolano. In tegame si fa soffriggere in olio d’oliva la cipolla tritata, si aggiungono dei pomidori pelati a pezzetti, sale e pepe quanto basta. A sugo ristretto si aggiunge il prezzemolo e le lumachine. Bastano pochi minuti per insaporire.
“Babbaluci del Festino”
Dopo la cottura come sopra indicato, si provvederà a preparare la salsa. In tegame si farà soffriggere l’aglio, rosso o rosa, in olio d’oliva, sale quanto basta, ma pepe nero abbondante. Aggiungere le lumachine e il prezzemolo. Anche in questo caso bastano pochi minuti per insaporire.
“Crastuni fritti”
Dopo la cottura, con l’aiuto di uno stuzzicadenti, si estrarranno dal guscio. A questo punto basterà togliere il filettino nero e passarle una ad una prima nella farina poi nell’uovo battuto e quindi nel pangrattato. Vanno fatte dorare nell’olio d’oliva bollente ponendocele poche per volta. Si servono ben calde.
“Crastuni del Monsù”
Variante elegante, baronale, della ricetta precedente. Tolte dal guscio si fanno saltare in padella con burro e aglio. Si aggiunge il prezzemolo al momento di servire.
“Attupateddi ccu sucu russu”
Dopo la cottura identica a quella di babbaluci e crastuni, si provvederà alla salsa rossa. In tegame si soffrigge la cipolla in olio d’oliva; quindi si aggiungeranno, poco alla volta delle nocciole di estratto di pomodoro ben concentrato, fino alla consistenza desiderata. Aggiungere sale e (molto) pepe e servire ben caldo.
“Attuppateddi o crastuni arrustuti”
E’ piatto tipico della Sicilia orientale. Le lumache si mettono su una griglia con brace viva per cinque/sei minuti. Sistemate in una zuppiera vanno condite con un ottimo olio d’oliva extra vergine, sale e pepe. Mescolare bene con cucchiaio di legno prima di servire.
A TAVOLA
Mangiare “comme il faut” le lumache è segno di riconoscimento: debbono succhiarsi direttamente dal guscio dopo che con i canini si è creato quel forellino che ne permette la fuoruscita. Insomma, sicilianità vuole che a ciascuna di loro sia riservato un bacio post mortem. E’ chiaro che è previsto soltanto l’uso delle dita, della bocca e una notevole forza aspirante. Soltanto alle giovinette di buona famiglia fu consentito l’uso di un uncino (d’argento, naturalmente…) per evitare quel poco elegante risucchio.
“Cui vivi acqua ccu li babbalùci, sunàti li campani pirchì è mortu”: mai acqua, dunque, ma un bicchiere di buon vino. Da un bianco d’Alcamo a un nero d’Avola: dipenderà dalla salsa.
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