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La Cucina siciliana all'epoca dei Florio: Le crêpes
Articolo inserito il 15/05/2007 alle ore 15.30.54
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Dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi del Novecento la cucina siciliana risentì della presenza dei Florio, grazie a una ventata di ricchezza, e pure dei rapporti culturali e di lavoro con l’Europa intera. Erano calabresi i Florio che a Palermo fecero fortuna con il mercato delle droghe e spezie. Appena si trasferirono dalla modesta abitazione di via Materassai 47, sentirono il bisogno del bien vivre degli aristocratici e assunsero pure loro un Monsù.
Monsù o Monzù? Dipende. Noi siciliani usammo sempre la esse, mentre i napoletani optarono per la zeta. In ogni caso un appellativo che spettò soltanto agli artisti dei fornelli.
Il palermitano Francesco Paolo Cascino fu Monsù in casa Florio dopo aver servito in casa Valdina e poi dai Deliella. Confidò ad Alberto Denti
di Piraino che “..il titolo di Monsù si dava ai cuochi di casata, cioè a quanti avevano il privilegio di servire in case patrizie. Gli altri, al lavoro magari presso gente ricchissima, ma non titolata, erano cuochi di paglietta e noi li consideravamo gente da non frequentare.”
Indimenticabili figure di Monsù emergono dalle pagine della letteratura siciliana. Ne “I Vicerè” di Federico De Roberto spicca la figura di Monsù Martino, assunto dagli Uzeda qualche anno prima del fatidico 1860. Ne “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa c’è lo splendido “pran pron” di Monsù Gaston con cui annunzia l’arrivo in tavola del celebre timballo di maccheroni in crosta servito a Donnafugata.
Al Monsù ci si rivolgeva dandogli del voi e non dimentichiamo che in tutti i Palazzi della nobiltà palermitana c’era sempre il “quarto del Monsù”: un appartamento tutto per lui, un alloggio privato, come si rileva dai documenti notarili.
La cosa più curiosa è che in Francia ai grandi cuochi, agli artisti della casseruola, si diede sempre del Maître!
Agli antichi Monsù, a quei lontani artisti della cucina, dobbiamo i nostri solenni ragoûts, i pâtés, i soufflés, le sontuose glasses e quei maccheroni en croûte profumati di burro e di carissimo parmigiano. Ma non solo quelle delizie.
Non ci facciamo più caso giacché oggi le “creperie”, al pari dei funghi dopo la pioggia, sorgono dappertutto: in città e paesi. C’è da gridare allo scandalo? Sì, ma solo perché le malcapitate crepes di tanti menu siciliani hanno perduto l’accento circonflesso sulla prima, oppure vengono esibite con incerta, talvolta disinibita ortografia. Anche se furono introdotte dai tanti Monsù in esercizio nei piani alti dei Palazzi, tanto straniere non sono.
Infatti, quando arrivarono i Romani dalle nostre parti e ci gratificarono di tanti S.P.Q. ci insegnarono a fare una economica frittatina, leggerissima e quasi trasparente. Quel modestissimo uovo, sbattuto su una lastra o padella arroventata, appena a contatto si aggrinzava increspandosi. Ecco dunque quel “crispus”, cioè crespo, increspato. In Francia come crespelle ci finirono, attorno all’anno 495, grazie a Papa Gelasio I che non era neppure francese, ma africano. Fu lui ad ordinare che si distribuissero quelle economiche frittatine ad una massa di pellegrini francesi giunti a San Pietro stanchi e sopratutto affamati. E fu il successo: in Francia vennero divulgate traducendo quelle crespelle in “crêpes”. Poi arrivò la crêpe Suzette.
Ma chi era Suzette? Per chi non lo sapesse è il nome di una celebre crêpe aromatizzata al mandarino e introdotta a Palermo proprio negli ultimi anni dell’Ottocento, quando la città visse la sua splendida belle époque dei Florio.
La regina di Palermo, come venne definita, si chiamava donna Franca Jacona di San Giuliano, moglie di Ignazio Florio. Un buon partito – dissero le malelingue – per indorare il blasone dei San Giuliano...
Nella capitale abitavano ricchi proprietari terrieri, professionisti e uomini politici legati, in qualche modo ancora al mondo dell’antica aristocrazia, assieme a una massa di affamati abitanti di catoi. Accanto a loro una nuova classe sociale emergente. L’amalgama non fu facile e neppure veloce giacché i giovanotti della nascente borghesia dovettero apprendere le norme sociali, compreso lo stare a tavola. Insomma, quelle regole non scritte, a cui non erano educati.
Si esibì una nuova ricchezza espressa sinteticamente nel brillante di parecchi carati, contro i raffinati monili di famiglia di modesto peso in oro e pietre che non andavano oltre il rubino. Spetezzanti vetture automobili presero il posto di legni eleganti tirati da stupendi cavalli carrozzieri.
C’erano i Monsù e pure la prima mafia cittadina. Che si scriveva ancora maffia, con due effe, nei rapporti di polizia. A Fondo Laganà, fra l’Acqauasanta e l’Arenella, era stata scoperta nel 1897 una camera della morte a servizio della cosca di quella zona.
Proprio da quelle parti, dove c’erano eleganti stabilimenti balneari, sorse la Villa Igiea dei Florio che vide la luce ufficialmente il 10 dicembre del 1900. Con un gala memorabile ed una “minuta” di cui si parlò per parecchio tempo.
Si vuole che la crêpe Suzette sia stata inventata da Henri Charpentier, apprezzatissimo chef dei Rockefeller. Stando a una sua dichiarazione, l’avrebbe creata a Montecarlo, precisamente nell’anno 1896, per il principe di Galles, figlio della regina Vittoria d’Inghilterra. Suzette era il nome di una charmante brunetta, con il nasino all’insù, che ebbe con il principe una storia di letto. Non c’erano ancora Novella 2000 e il gossip in tivvù: ne avremmo saputo sicuramente molto di più....
Quel principe, amante di crêpes e allegre donnine, salito al trono d’Inghilterra con il nome di Edoardo VII, concluderà con l’amata Francia la famosa “Entente cordiale”.
C’è da chiedersi: c’entrarono le grazie di Suzette e magari quelle crêpes?
Sarebbe bello crederci.
Personalmente ritengo che sia stato soltanto un atto di presunzione la dichiarazione di Monsieur Charpentier. Facendo un po' di conti, all’epoca, avrebbe avuto sedici anni....
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