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Uno Chef unico e particolare da "La mia Africa" di Karen Blixen - Gastronomia in pillole a cura di Luigi Farina
Articolo inserito da luigi il 22/03/2018 alle ore 19.30.37
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In questo romanzo autobiografico la scrittrice danese descrive la sua vita sull'altopiano africano del Ngong. Fra i personaggi descritti uno fra i più simpatici è Kamante, bambino indigeno malato che dopo essere stato curato da Karin, ha tanto spiccata la passione per la cucina, nonostante non sapesse leggere e non conoscesse l'inglese, diventò un eccezionale chef.
...Ma come chef era tutt'altra cosa, un vero fuori classe. La natura, lí, aveva fatto un guizzo, saltando a piè pari ogni legge di precedenza fra capacità e talento; come sempre nella genialità, c'era qualcosa di mistico e inspiegabile. In cucina, Kamante aveva tutti gli attributi del genio compresa la sua condanna, l'impotenza dell'uomo di fronte al suo stesso potere. Se fosse nato in Europa e avesse avuto un maestro intelligente, sarebbe diventato un uomo famoso, un personaggio pittoresco della storia. Anche in Africa si era fatto un nome: il suo atteggiamento verso la culinaria era quello di un grande artista.
Io stessa ero appassionata di cucina: tornando per la prima volta in Europa avevo preso lezioni dallo chef di un noto ristorante francese. Sarebbe stato divertente poter preparare dei buoni piatti in Africa, pensavo. Vedendo il mio entusiasmo, lo chef, Monsieur Perrochet, mi aveva proposto persino di dirigere il ristorante insieme a lui. Quando scoprii Kamante, quella specie di genio familiare che lavorava al mio fianco, mi riprese l'amore per la cucina. Lavorare insieme con lui mi apriva dei vasti orizzonti: scoprire in un selvaggio l'istinto innato per la nostra atre culinaria mi pareva miracoloso. Giungevo a giudicare la nostra civiltà da un punto di vista completamente diverso: forse era davvero divina e predestinata. Mi sentivo come l'uomo che riacquistò la fede in Dio perché un frenologo gli indicò la sede dell'eloquenza teologica nel cervello umano; se si poteva dimostrare l'esistenza dell'eloquenza teologica, si dimostrava anche l'esistenza della teologia e, in ultima analisi, l'esistenza di Dio.
In tutte le questioni culinarie ' Kamante era di una straordinaria abilità manuale. I grandi trucchi e i tours de force della cucina erano giuochi da bambini per quelle sue mani nere e curve, che avevano innata la scienza delle omelettes, dei vol-au-vents, delle salse e della maionese. Possedeva un dono speciale per rendere le cose piú leggere, come, nella leggenda, il bambino Gesú plasma uccelli dalla creta e li fa volare. Disprezzava tutti gli strumenti complicati, forse non sopportando che agissero con troppa indipendenza; quando gli comprai una macchinetta per sbattere le uova la lasciò arrugginire in un angolo, continuando a montare le chiare con una specie di trinciante per le erbacce: riusciva a farle torreggiare come nubi. Possedeva un occhio di cuoco penetrante ed ispirato, capace di scegliere il pollo piú grasso dell'intero pollaio, e se soppesava gravemente un uovo sapeva quando era stato fatto. Faceva di tutto per migliorare la mia tavola, cercando di procurarsi con mille sistemi gli ingredienti piú raffinati. Tramite un suo amico che lavorava da un medico, molto lontano dalla fattoria, mi portò i semi di una lattuga veramente squisita, come io stessa per anni non ero riuscita a trovare.
Aveva una memoria eccezionale per le ricette. Non sapeva leggere e non conosceva l'inglese, e i libri di cucina non gli servivano a nulla, ma doveva aver ammassato nella sua goffa testa, con una sua sistematica personale per me incomprensibile, tutto ciò che gli avevamo insegnato. Ogni pietanza, nella sua fantasia, portava il nome di un avvenimento accaduto il primo giorno che l'aveva fatta: parlava della salsa dell'albero colpito dal fulmine e di quella del cavallo grigio morto. Ma non le confondeva mai l'una con l'altra.
Una cosa sola non riuscii mai a fargli capire: l'ordine in cui dovevano essere servite le pietanze durante i pasti. Se avevo ospiti ero costretta a disegnargli una specie di menú figurato: prima un piatto fondo per la minestra, poi un pesce, poi una pernice o un carciofo. Secondo me non era che non riuscisse a ricordarsene, ma probabilmente, in cuor suo, pensava che tutto ha un limite e che non vale la pena di perdere tempo per una sciocchezza.
E' emozionante lavorare con un demone. Teoricamente comandavo io, ma mentre stavamo accanto, fra i fornellì, avevo la sensazione che non solo la cucina, ma tutto il nostro mondo passasse pian piano nelle mani di Kamante. Là dentro capiva a volo cosa volessi, e non sbagliava mai: a volte addirittura preveniva i miei desideri. Rimase sempre un mistero, per me, il meccanismo, o piuttosto la fonte, di tanta bravura. Mi sembrava strano che si potesse raggiungere tanta perfezione in un'arte di cui non si capiva il vero significato e per cui si aveva solo disprezzo.
Spesso non aveva la piú pallida idea del sapore dei piatti che preparava: malgrado la sua conversione al cristianesimo e i suoi legami con la civiltà, in fondo al cuore era un autentico kikuyu, radicato nella tradizione della sua tribú e nella fede che aveva in essa, l'unico modo di vivere degno di un essere umano, per lui. Talvolta saggiava le pietanze che aveva cucinato, ma sempre con la faccia sospettosa d'una strega che beva un sorso della sua broda. Lui restava fermo alla pannocchia di mais dei suoi padri. Su quell'argomento diventava persino stupido ed era capace di offrirmi una leccornia kikuyu - una, patata dolce arrostita o un pezzetto di grasso di pecora - come certi cani civilizzati, abituati alla compagnia dell'uomo, depongono dinanzi all'ospite un osso come un gran regalo. In cuor suo, probabilmente, considerava pazzesche tutte quelle smanie per la cucina. Tentavo di fargli dire il suo pensiero, ma mentre di tante cose parlava a cuore aperto, per altre non c'era verso di cavargli una sillaba di bocca; cosí si lavorava fianco a fianco, in cucina, e ognuno si teneva le sue convinzioni sull'importanza della culinaria.
Lo mandai a fare pratica al Club Muthaiga e dai cuochi di quelli fra i miei amici di Nairobi dove avevo mangiato qualche buon piatto che non conoscevo. Quando ebbe finito il suo tirocínio, la nostra casa, con mia grande gioia, divenne famosa in tutta la colonia per la sua tavola. Volevo un pubblico, per la mia arte, ed ero felice di invitare a pranzo i miei amici. Ma Kamante. pur non dimenticando mai i gusti dei miei ospiti piú cari, non si curava delle lodi di nessuno. «Per Bwana Berkeley Cole farò il pesce col vino bianco», diceva con aria grave, come si riferisse ad un mentecatto. « Il vino lo manda lui stesso ». Per avere il parere di un'autorità invitai a pranzo un mio vecchio amico di Nairobi, Charles Bulpett. ... Fu una gioia, per me, averlo a cena alla fattoria; c'è un piacere particolare nell'offrire un buon pranzo cucinato con le proprie mani a qualcuno per cui si ha veramente simpatia. In cambio mi confidò, fra l'altro, le sue idee sulla cucina, e su molte altre cose, assicurandomi di non aver mai mangiato meglio in vita sua.
Anche il principe di Galles mi fece l'onore di venire a cena da me, e di complimentarmi per una salsa Cumberland. Fu l'unica volta che vidi Kamante ascoltare con profondo interesse i complimenti che gli traducevo: i re, nella fantasia degli indigeni, sono esseri straordinari, dei quali parlano con gran piacere. Dopo parecchi mesi ebbe il desiderio di sentirsi ripetere i regali elogi e mi chiese, con un frasario che sembrava tolto da un manuale per lo studio del francese: "Piacque al figlio del sultano la salsa del maiale? La mangiò tutta?» ...
da "La mia Africa" di Karen Blixen
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