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Il Vino e i Romani


Articolo inserito da luigi il 13/09/2012 alle ore 13.09.50


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Il vino nella tavola dei romani era molto diffuso e ricercato. Questa bevanda aveva soprattutto un carattere sacro - carattere che si è conservato nella religione cristiana, gli uomini non potevano berlo prima di aver compiuto trent'anni ed era proibito alle donne; esisteva infatti una prova, chiamata "ius osculi" (diritto del bacio), che permetteva al marito di dare un bacio alla moglie sulla bocca per vedere se aveva rispettato questa regola.

Il vino era bevuto in coppe molto larghe e quasi piatte ed era uso berlo diluito con acqua calda o fredda, secondo i gusti. Era conservato fino a 15 anni e più era vecchio più era costoso.

I vini in uso non erano tantissimi, la letteratura ci tramanda questi nomi: l'Opimiano, il Mermentino di Sicilia, il Cecubo, il Greco, i vini di Scio e di Lesbo e il Falerno. E' difficile farsi un'idea del sapore del vino di allora. Gli haustores, i sommeliers dell'epoca, classificavano i vini in un'infinità di modi, dimostrando così di avere un palato sensibilissimo: dolce, soave, nobile, prezioso, molle, delicato, tenue, leggero, fiacco, debole, forte, solido, consistente, robusto, valido, austero, severo, duro, aspro, acre, frizzante, ardente, indomito, generoso, pingue, grasso, sordido, vile.

Molti predicavano, come Plinio, che i vini dovevano essere puri, ma i raffinati delle tavole usavano misture di ogni tipo, che oggi manderebbero un produttore in galera per sofisticazione. L'aggiunta più comune era quella di miele per aumentarne il valore zuccherino, ottenendo quello che veniva chiamato il "vinum mulsum", che, visto che così trattato diventava più prelibato, veniva servito generalmente all'inizio di un convivio, mentre man mano che il pranzo procedeva, venivano serviti vini sempre più scadenti.

Le altre aggiunte in uso erano le più impensate: si aggiungevano pece e resine, che davano però cefalea e vertigini. Si mescolavano profumi femminili, per renderlo afrodisiaco, o acqua marina, e si arrivava a miscelare cloruro di sodio o gesso, anche se tale uso veniva sconsigliato dai medici, che sostenevano fosse dannoso alla salute.

Rimaneva il fatto che il vino era il signore delle mense.

Prima del banchetto vi era l'uso di eleggere un "arbiter bibendi", che non doveva toccare vino, ma aveva il compito delicatissimo di stabilire quanti parti di acqua dovessero mescolarsi ai vini, in modo che il convivio potesse arrivare alla fine senza molti incidenti di percorso. Tale "arbitro" veniva sorteggiato con i dadi, sperando che Bacco scegliesse, dall'alto del suo potere, la persona più adatta, che avesse l'equilibrio necessario per donare vini buoni con parsimonia.

Durante i banchetti non era buona creanza ubriacarsi, anche se non era infrequente che qualcuno cadesse in questa insidia o stesse male, in questi casi si usavano dei miscugli, di cui il più in uso era una miscela di polmone di capra, mandorle amare e cavolo crudo.

Fuori dai banchetti, ogni scusa era buona per bere un buon bicchiere di vino. Si beveva alla salute di un amico, di una persona importante, della donna amata e in questo caso si bevevano tanti "ciati" (coppe) quante erano le lettere che ne componevano il nome. Si arrivava agli eccessi di bere dei veleni, così da essere obbligati a bere più vino, stimolati dal terrore della morte.

 

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