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Riscoltato per voi
da
Mario Corsini
27/10/2003 |
Nella storia dei
jazz ci sono stati momenti in cui il linguaggio
musicale è mutato in modo definitivo. Singoli
musicisti di spicco ne sono stati gli artefici,
altri li hanno seguiti indirizzando nuove
correnti stilistiche verso la novità.
Non si sa bene chi
o cosa fra fine 800 e l'inizio del nuovo secolo
abbia coagulato precedenti seminalità (il blues,
il ragtime, il folk, le marce..) nel senso di un
iniziale assioma improvvisativo, ma è evidente
che in ciò sia consistito il primo snodo
stilistico decisivo per la nascita del jazz. E'
ben noto invece il ruolo di Louís Armstrong
nell'affermazione della figura del solista nel
jazz laddove, fino a quel momento era prevalsa
l'improvvisazione collettiva. II terzo artista
rivoluzionario è stato Charlie Parker che ha
sconvolto il linguaggio solistico rivoltandolo
come un guanto in qualcosa dì inaudito, definito
dal termine Be Bop.
L'ultima
rivoluzione (fin'ora) è quella del Free Jazz
avviata da Ornette Coleman relativa ancora una
volta al linguaggio, ma anche alla figura del
musicista negro del quale si rivendica la
coscienza razziale. Rendere la creazione
musicale il più possibile libera dai precedenti
schemi armonici e grammaticali assurge a simbolo
di un rifiuto del ruolo subalterno della gente
di colore. A fianco di queste figure cardine non
sono mancati altri musicisti capaci di
riscrivere il linguaggio Jazz. Non credo sia
azzardato definire innovatore proprio un artista
che dell'introversione e della timidezza ha
fatto velo per mascherare la sostanziale
rivoluzionarietà del proprio messaggio musicale.
Parlo di Bill Evans, pianista bianco che dalla
fine degli anni '50 fino alla sua morte ha
riscritto il lessico del piano jazz o più ancora
del trio pianoforte - contrabasso - batteria. Lo
storico trio con cui si è affermato vedeva Scott
La Faro al contrabbasso e Paul Motian alla
batteria. Le prime incisioni dal vivo al Village
Vanguard che furono raccolte originariamente in
due dischi, codificano già compiutamente quanto
detto sopra e vengono considerate dei
capolavori.
Ma l'album di cui
parlo adesso è inciso in studio ed è il quarto
da solista per Evans (che già aveva
ripetutamente partecipato ad incisioni a nome di
altri musicisti di grande rilievo). La sessione
da cui nasce "Explorations" porta la data
del 2/2/61. Tranne un brano (Beautiful love che
è presente in due "takes") tutti i pezzi sono
incisi di getto, a testimoniare l'urgenza
dell'ispirazione e l'affiatamento dei musicisti.
In particolare la presenza di Scott La Faro,
grande contrabbassista prematuramente scomparso,
appare fondamentale per dare a questa ed altre
incisioni del periodo una maturità di stile al
trio che potrei definire compiuta e definitiva.
Ciò in particolare per "l'interplay", termine
intraducibile che designa quella propulsione
reciproca che
potenzia, influenza e determina la creazione
estemporanea tra jazzisti che suonano insieme.
Nel trio dì Evans ciò definisce una maniera, per
così dire, "democratica" di suonare. Il trio
classico
vede un solista principale, il pianista,
accompagnato dalla sezione ritmica.. Qui si
configura un diverso ruolo in cui i tre solisti
sono sullo stesso piano. In altri termini è come
se si volesse affermare: se il bassista o il
batterista hanno genio ed idee da vendere perché
confinarli all'accompagnamento all'interno di
una tradizionale sezione ritmica? Consequenziale
è lo svilupparsi di tre linee improvvisative
contemporanee più o meno in primo piano non in
base all'ordine degli assolo, semmai in base
alla rilevanza dell'ispirazione di quell'istante.
Ciò, curiosamente, accomuna la musica in esame
da un lato al metodo dell'improvvisazione
collettiva del jazz arcaico di New Orleans, e
d'altro canto al Free Jazz in cui il parziale
affrancamento da precedenti schemi armonici e
strutturali spinge i musicisti ad improvvisare
insieme nella maniera più estemporanea.. (vedi a
proposito il capolavoro di Ornette Coleman, il
disco "Free Jazz", dove non a caso partecipa La
Faro). Bill Evans fa l'uno e l'altro pur non
sembrando mai uscire dai linguaggi precedenti,
mantenendo semmai rigorosissime le sue origini
boppistíche. Nel contempo, come per ogni grande
artista, la musica riesce a riflettere l'anima
tormentata dell'uomo, già allora in preda a
disagi personali sfociati in seguito in quella
tossicodipendenza che ne avrebbe avviato la
decadenza fisica. Il risultato è un jazz
intenso, ricco di feeling, rigoroso e mai
superficiale che potrebbe essere definito come
"introspettivo". A tale proposito non sarà
secondario accennare al modo in cui Evans
atteggia la postura mentre suona: ricurvo sulle
spalle, col capo praticamente ad angolo retto
sul tronco quasi a volersi concentrare non solo
fisicamente in un tutt'uno col piano e la
tastiera. Ma ciò mai a scapito del feeling,
peraltro ben sostenuto da un gigantesco La Faro
sui tempi rapidi, calda e avvolgente la trama
bassistica
sui lenti e le ballads.
In altre parole
nasce un linguaggio che nella sua apparente
naturalezza porta il trio Jazz ad una grammatica
nuova dalla quale da allora in poi non è stato
possibile prescindere fino ai nostri giorni. Fra
i pianisti in particolare si può dire che molti
dei nomi più importanti delle ultime decadi, da
Keith Jarrett ad Herbie Hancock sino alle ultime
leve del jazz (vedi Brad Meldhau, per
citarne uno che domina i referendum
specializzati più recenti) non stanno facendo
che rielaborare e sviluppare la lezione
stilistica di questo maestro.
L'album "Explorations"
è un esempio perfetto di lucidità artistica,
un'opera compiuta che non mostra cali
qualitativi in ogni suo brano. Cito per primo "Nardis",
attribuito con qualche incertezza a Miles Davis.
Quest'ultimo, che stimava Evans al punto da
sceglierlo come pianista per il suo capolavoro "Kind
of blue", non nascose mai l'idea che questo
brano fosse tagliato su misura su dì luí. Evans
se ne appropria e il risultato è strepitoso!
Dopo l'esposizione del tema la prima
improvvisazione spetta al bassista al cui
splendido assolo si accompagnano con discrezione
le spazzole e i piatti di Motian e i trilli, i
bi- e tricordi di Evans. Ed è naturale che il
feeling discreto e propulsivo passi alle dita
del pianista mentre il bassista si produce in
qualcosa a cavallo tra l'accompagnamento e il
solismo in un rigoroso tempo di 4/4 scandito dai
tre con libertà, ma anche con metronomica
precisione: una delizia di timbri, armonie e
chiaroscuri tra l'esotico e l'impressionista. Ma
se "Nardis" alla fine è un brano dove il ruolo
del solista si avverte più distinto, in altri
pezzi (come "Sweet and lovely") il trio procede
per una improvvisazione più paritaria e ciascuno
dei tre calibra i volumi, i toni, i "breaks" in
un unico magnetico altalenare, tra arresti e
ripartenze, accordi e modulazioni così perfetti
da apparire inevitabili. A ciò è da ascrivere la
naturale scioltezza che accompagna questo jazz
stellare.
Ed ancora
"Israel", l'elegante tema di John Carisi, già
eseguito da Davis, Mulligan e compagni nello
storico disco "Birth of the Cool", qui
trasfigura l'originario rigore cameristico in un
lirico archetipo e sviluppa un feelìng quieto
tramite ghirigori di note collettive ed
individuali a un tempo. Simile clima si respira
in "Beaufiful love".
Un discorso a
parte merita l'interpretazione delle "ballads"
cui Evans riserva un nuovissimo svolgimento in
grado di conservare miracolosamente intatta la
cantabilità, la liricità, in una parola
l'essenza di queste melodie cento volte
interpretate da sassofonisti o cantanti
strutturalmente ritenuti più espressivi per il
genere rispetto ad un pianista. Basti prendere
la versione di "How deep ís the ocean",
celeberrima "ballad" dì Irvìng Berlin: in questa
versione il tema non viene enunciato all'inizio,
ma, accennato tra i meandri di indirette
citazioni armoniche, riemerge sempre meno
implicito sino alla completa esposizione finale,
in tutta la sua bellezza romantica. Basterà
ascoltare una qualsiasi delle più pregevoli
versioni dello stesso brano di altri artisti
(per esempio quella, più volte ricreata da Ella
Fitzgerald) per accorgersi che il trio Evansiano
ne ha saputo carpire la più profonda essenza
melodica, emotiva ed artistica. Cito ancora la
splendida, delicata "Elsa" o l'introspettiva "I
wish i knew". Da questo momento in poi nasce una
nuova maniera di interpretare le "ballads", ma
credo di poter dire che le vette raggiunte qui e
in altri capolavori dei trio siano
irraggiungibili.
Dalla preziosa
riedizione in compact dísc "The complete
Ríverside recordíngs" traggo la seguente
illuminante citazione: "Music is the most
important and meaningful thing in my life and
music contains more of me than any other thing
about my life" Bill Evans.
Mario Corsini |