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Riscoltato per voi
da
Mario Corsini
12/04/2004 |
La vicenda musicale di Django Reinhardt è uno di
quei casi in cui davvero l'arte è un mistero. La sua musica si può senz'altro
definire jazz e sicuramente non disconosce le sue ascendenze americane.
Tuttavia, rispetto alla scena musicale d'oltre oceano risaltano vistose
dissonanze stilistiche. Né può definirsi banalmente musica europea.. E' "manouche"!
ovvero di ascendenza tzigana e quindi nata.. da nessuna parte; forse in
Ungheria, forse in Francia, forse in una carovana itinerante di nomadi senza
patria. Django, sappiamo, visse per buona parte della sua vita in una roulotte.
Portava dei baffetti beffardi un po' da "pappone" adagiati su un sorriso di un
candore illibato. E sempre riconobbe con orgoglio le sue radici culturali ed
etniche, immettendole come un ingrediente basilare nella sua musica. Può così
capitare di ascoltare la sua versione di "St Louis Blues" sentendosi più che in
un bordello di New Orleans in un ristorante di mare su in Bretagna, dove un
violinista male in arnese e un chitarrista monco di due dita suonano un brano
appassionato nella totale indifferenza degli astanti. Quello stesso brano,
eseguito da Satchmo è un ruggito! Il mistero sta nel fatto che non si snatura.
Cercherò di svelare tale mistero almeno in parte elencandone gli ingredienti
principali.
Sentire "Le
Quintette du Hot Club de France" equivale in molti sensi ad accostarsi all'arte
di uno di quei "bluesmen" del Delta dei primi anni del 900. Ascoltando quelle
gracchianti tracce fonografiche si svela che già lì è racchiusa l'anima del
blues. Come facevano quegli artisti di strada quasi analfabeti a inventarsi
tutto questo? Da chi lo avevano appreso? Fatto sta che in un'unica seduta
d'incisione un certo Robert Johnson eseguì 36 blues in cui in nuce c'è già
tutto..
Così accade
per Django. Innanzi tutto la formazione del "quintette" prima maniera "sans
tambour nì trombette" come riportato in una testimonianza di Stèphane Grappelli:
manca la sezione ritmica in senso tradizionale, il contrabbasso è discreto e
poco appariscente (ma c'è!) e ci sono due chitarre. Una suonata il più delle
volte dal fratello di Django produce accordi alla.. Paolo Conte (ascoltare e
comparare per credere!). L'altra chitarra è Django, ovvero un universo: declina
incredibili serie di notine dove lo staccato imposto dalla natura dello
strumento sembra trasformarsi in una cascata ininterrotta, mentre nei brani più
lenti le note si ricolmano di una espressività pregna di tensione emotiva senza
mai ricadere nell'ovvio o nello sdolcinato. Ma non è tutto: Django è anche
chitarrista ritmico impareggiabile! Produce accordi in sequenze armoniche
ardite, sincopi dissenate quanto necessarie, accenti di note seriate come
commento alla "svisata".. Altre volte raddoppia l'altra chitarra dando
consistenza granitica se così si può dire, all'agilità della sezione ritmica. Il
tocco finale lo da il violino di Stèphane Grappelli, in veste di solista puro.
"Esitavo allora a fare musica moderna sul più classico degli strumenti, il
violino. Ma la convinzione e il genio di Django sgombrarono tutti i miei dubbi".
Così dichiara Grappelli in una intervista. In effetti il violino è uno strumento
appassionato per il registro acuto che lo caratterizza, per la confortevole
naturalezza dei suoi vibrati e l'agilità delle sue armonie. Stèphane, mai
lezioso, mai banale né sdolcinato fa di questo strumento la quintessenza della
fantasia e della leggerezza. Tutto questo avviene in perfetta simbiosi con
Django nell'agone di una essenzialità assoluta. Si ha la sensazione che ogni
accordo, ogni nota siano al loro posto e non ci sia nulla da aggiungere. Giusto
ogni assolo nella sua brevità, ogni accento è funzionale al "mood" della musica.
In questo senso è come se non si trattasse di improvvisazione ma che ci fosse un
artefice che abbia piazzato ogni nota tra gli spazi di un pentagramma a
disposizione degli esecutori..
Ed infine non
manca la cosa più importante, l'ingrediente essenziale del buon jazz: lo swing.
Lo definirei però, prendendo a prestito il titolo di un classico brano del
quintetto, uno swing "minore". Cerco di spiegarmi.. Tornando a Louis Armstrong e
considerando i suoi immortali brani con gli "Hot Five" e "Seven" ne avvertiamo
la drammaticità, la sanguigna propulsione, la virile dignità. Se ascoltiamo
Count Basie o Benny Goodman distinguiamo il "drive" adatto al ballo e la carica
di ottimismo dopo la "Grande Depressione" del 1929. Se ci accostiamo alla musica
di Grappelli e Reinhardt, pur riconoscendo uno swing letteralmente sbalzato come
su un bassorilievo, non possiamo non apprezzarne la grazia sottile, una specie
di malinconia stemperata in un sorriso: uno swing minore mai gridato ma semmai
suggerito.
Ho voluto
cominciare dal generale prima di soffermarmi sul particolare di questa
irrinunciabile "Retrospective" che copre tutta la carriera di "manouche" dal
1934 al 1953. Ho "riascoltato per voi" non un singolo album (..per forza: negli
anni 30 la musica si ascoltava sui "78 giri"!) ma una antologia. Sto anche
cercando di dimostrare che questa musica particolare non creò scuole stilistiche
né proseliti. Senza Django nessun altro l'avrebbe estratta dal cilindro magico.
Eppure è nata in qualche parte del vecchio continente, non si sa bene dove.. In
Belgio dove Reinhardt ebbe i natali nel 1910? E' certo che molto tempo prima il
suo popolo dalle lontane Indie giunse ai Balcani e poi in tutta Europa, in
Germania, nelle Fiandre sino all'Alsazia Lorena. E' certo che in questa musica
soffia un vento migratore, un pout-pourrì di etnie bastarde. E poi il caso volle
che in un incendio della sua roulotte Django si ustionasse gravemente la mano
sinistra: due delle dita rimasero rattrappite e del tutto inutilizzabili. Fu un
incidente che avrebbe stroncato ogni velleità di suonare a qualunque
chitarrista. Django invece si inventò una tecnica personale adatta a quell'anatomia
menomata. Il risultato è uno stile straordinario e inimitabile che sembra
eseguito da 10-50-100 dita! Un altro mistero..
Il mistero
più grande è però lo stesso di sempre: come è stato che tutti questi ingredienti
che presi da soli avrebbero potuto anche non approdare a nulla siano diventati
grande, anzi grandissimo jazz! Ripeto non ci furono allievi, solo qualche
moderno strumentista che ne ha riprodotto la tecnica o qualche postilla
nell'impostazione ritmica del nostro Paolo Conte.
La disamina
che ho sviluppato ben si adatta al primo dei tre CD del cofanetto che copre il
primo periodo della carriera di Django. Come dirò tra poco c'è dell'altro. Ma
nella prima formazione del "Quintette du Hot Club de France" c'è già
l'essenziale. Il libretto che accompagna i CD descrive con semplicità e
competenza ogni singolo brano. Oltre a "St Louis blues" cito ancora "Minor
swing"("..swing alla francese a un tempo malinconico e gaio, focoso e
sofisticato") un successo anche commerciale, oltre che un capolavoro del jazz.
Notevole "My serenade" dove si può ascoltare la classe rilassata dell'artista in
un tempo più lento ed un "mood" più nostalgico. Ed ancora le reinvenzioni di
celebri standards dell'epoca quali "Dinah", "Limehouse blues", "Charleston", "Honeysuckle
rose" ed altri ancora trasformati dalla fantasia degli esecutori in qualcosa
d'altro.. In particolare va segnalata la reinvenzione dell'immortale "Night and
day" di Cole Porter di cui peraltro non va dispersa la struggente ispirazione ed
il garbo impareggiabile. Appare stupefacente la profondità di "Improvvisation n°
2", composizione ed esecuzione solitaria di Reinhardt, vero trattato empirico di
chitarra che ha consumato le dita di ogni volenteroso riesecutore. Django la
materializzò dal nulla dotata di "cette coleur Reinhardtienne inimitabile" di
cui parlano le note del libretto..
Il secondo CD
ci porta nel cuore degli anni 40. Per un certo periodo Grappelli si allontana
dal quintetto. Non vale la pena cercare sostituti e Django opta per diverse
soluzioni. Compare principalmente il colore e il timbro del clarinetto, ma
talvolta ci sono altre ance e persino una batteria "alla Gene Krupa" che finora
sembrava inopportuna. Cito ancora le note del libretto: "Django traccia
naturalmente una sua evoluzione dallo swing al be bop senza rinnegare la
specificità del proprio stile". In effetti agli inizi degli anni 40 egli
dimostra di avere ascoltato i jazzisti americani di stile swing. Ecco la
batteria già citata (mi riferisco specialmente a "Les yeux noirs"), ecco il
clarinetto di Hubert Rostaing che ricalca un po' Sidney Bechet, un po' lo stesso
Benny Goodman. Un altro brano che ha a che fare con lo swing fin dal titolo è
"Swing 42", stupefacente composizione di una leggerezza eterea al suono del
quale i francesi, in piena occupazione nazista, poterono ballare i ritmi
"americani". Né manca in "Blues en mineur" la formula del duo che ha il
pianoforte di Ivon de Bie da un lato e Django dall'altro a far piangere le corde
della chitarra sotto le sue dita e che suona lui stesso il violino con stile
peraltro originalissimo. Più in generale il clima oscilla tra una diafana
gaiezza ed una coloritura talvolta "Felliniana" (alla Nino Rota di là da
venire..) nell'arrangiam
ento prezioso per chitarre e due clarinetti di "Memoir de mes reves". Ma sono
solo alcune delle tante sfaccettature della musica: Django divaga con assoluta
naturalezza negli arrangiamenti così come sulle armonie. "Blues clair" in poco
più di tre minuti contiene un manuale di tecnica improvvisativa: rulli accordali
granitici, armonie intricate e scale ai limiti dell'eseguibilità, effetti di
tensione delle corde miranti alla produzione delle note blues, "svisate" a tempo
doppio o dimezzato ecc.: tutto declinato con scioltezza divina! In questo II°
volume troviamo anche l'orchestra jazz sullo sfondo della chitarra solista,
viene reinventata altresì persino la "Marsigliese" per festeggiare (da Londra!)
la fine della guerra e il ritorno di Stéphane Grappelli. Ci sono i primi echi "Be
bop" allorché Django adatta con facilità innovativa la sua tecnica alla chitarra
elettrica. Ci sono i soliti standards americani in stile "Douce France". Ci sono
persino Grieg e Debussy, quest'ultimo sotto forma di "ballabile" in tempo
"slow". E poi c'è "Nuages". Ci vorrebbe un articolo a parte. Io lo definirei "incatalogabile"..
Ancora una volta si sconfina nel mistero!
Il terzo CD
copre gli ultimi sei anni della carriera e purtroppo della vita del chitarrista
morto di ictus cerebrale nel 1953. Comprende alcune incisioni col violinista
compagno di sempre ed ancora capolavori ma soprattutto si caratterizza per la
ricerca di sonorità aggiornate all'estetica del jazz moderno. Il suo stile si
adatta allo strumento elettrico divenendo più meditativo. Si manifesta
l'influenza (per altro reciproca) del chitarrista americano Charlie Christian
che in quel periodo, a partire dalla partecipazione a gruppi swing né andava
mutuando lo stile verso gli orizzonti del be bop, "from swing to be bop" per
l'appunto. In "Topsy" ciò è del tutto evidente. In "Dinette" viene duplicata
l'abitudine dei "boppers" di sfruttare i giri accordali di precedenti standards
per sovrapporvi nuovi motivi melodici (in questo caso è "Dinah" il brano
originario). Ancora in "Daphne" siamo a cavallo tra la modernità ed il più
classico stile Reinhardtiano. In "Place de Brouckère" l'uso di una rudimentale
distorsione garantisce energia ad una improvvisazione dalle forti tinte "blues".
In "Nuits de St Germane de Prés" ci si avvicina molto al "sound" d'oltre oceano
anche grazie all'uso di tromba e sax. Non trascurerò un altro brano eccezionale
quel "Troublant boléro" che traendo spunto dal ritmo reso famoso da Ravel da
esito ad una musica "oscillante come un palmizio", come direbbe Pao
lo Conte. Io la immagino come accompagnamento sonoro alla sensuale danza di
Josephine Baker in un locale notturno parigino. Come possiamo vedere la musica
che ho descritta è quanto mai eterogenea, ma anche in questi ultimi esempi non
va mai persa l'impronta "manouche" indefinita e inconfondibile ancora dopo vent'anni..
Conclude
degnamente la retrospettiva l'ultima commovente versione di "Nuages" per
chitarra elettrica e senza violino ma con un "feeling" immenso. E' un addio..Di
lì a poco Django avrebbe posato per sempre la sua chitarra "manouche".
Mario Corsini |