Spazio Musica

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Riascoltati per voi


RETROSPECTIVE DJANGO REINHARDT 1934-53
 

 


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Riscoltato per voi

da Mario Corsini

12/04/2004

 

La vicenda musicale di Django Reinhardt è uno di quei casi in cui davvero l'arte è un mistero. La sua musica si può senz'altro definire jazz e sicuramente non disconosce le sue ascendenze americane. Tuttavia, rispetto alla scena musicale d'oltre oceano risaltano vistose dissonanze stilistiche. Né può definirsi banalmente musica europea.. E' "manouche"! ovvero di ascendenza tzigana e quindi nata.. da nessuna parte; forse in Ungheria, forse in Francia, forse in una carovana itinerante di nomadi senza patria. Django, sappiamo, visse per buona parte della sua vita in una roulotte. Portava dei baffetti beffardi un po' da "pappone" adagiati su un sorriso di un candore illibato. E sempre riconobbe con orgoglio le sue radici culturali ed etniche, immettendole come un ingrediente basilare nella sua musica. Può così capitare di ascoltare la sua versione di "St Louis Blues" sentendosi più che in un bordello di New Orleans in un ristorante di mare su in Bretagna, dove un violinista male in arnese e un chitarrista monco di due dita suonano un brano appassionato nella totale indifferenza degli astanti. Quello stesso brano, eseguito da Satchmo è un ruggito! Il mistero sta nel fatto che non si snatura. Cercherò di svelare tale mistero almeno in parte elencandone gli ingredienti principali.

Sentire "Le Quintette du Hot Club de France" equivale in molti sensi ad accostarsi all'arte di uno di quei "bluesmen" del Delta dei primi anni del 900. Ascoltando quelle gracchianti tracce fonografiche si svela che già lì è racchiusa l'anima del blues. Come facevano quegli artisti di strada quasi analfabeti a inventarsi tutto questo? Da chi lo avevano appreso? Fatto sta che in un'unica seduta d'incisione un certo Robert Johnson eseguì 36 blues in cui in nuce c'è già tutto..

Così accade per Django. Innanzi tutto la formazione del "quintette" prima maniera "sans tambour nì trombette" come riportato in una testimonianza di Stèphane Grappelli: manca la sezione ritmica in senso tradizionale, il contrabbasso è discreto e poco appariscente (ma c'è!) e ci sono due chitarre. Una suonata il più delle volte dal fratello di Django produce accordi alla.. Paolo Conte (ascoltare e comparare per credere!). L'altra chitarra è Django, ovvero un universo: declina incredibili serie di notine dove lo staccato imposto dalla natura dello strumento sembra trasformarsi in una cascata ininterrotta, mentre nei brani più lenti le note si ricolmano di una espressività pregna di tensione emotiva senza mai ricadere nell'ovvio o nello sdolcinato. Ma non è tutto: Django è anche chitarrista ritmico impareggiabile! Produce accordi in sequenze armoniche ardite, sincopi dissenate quanto necessarie, accenti di note seriate come commento alla "svisata".. Altre volte raddoppia l'altra chitarra dando consistenza granitica se così si può dire, all'agilità della sezione ritmica. Il tocco finale lo da il violino di Stèphane Grappelli, in veste di solista puro. "Esitavo allora a fare musica moderna sul più classico degli strumenti, il violino. Ma la convinzione e il genio di Django sgombrarono tutti i miei dubbi". Così dichiara Grappelli in una intervista. In effetti il violino è uno strumento appassionato per il registro acuto che lo caratterizza, per la confortevole naturalezza dei suoi vibrati e l'agilità delle sue armonie. Stèphane, mai lezioso, mai banale né sdolcinato fa di questo strumento la quintessenza della fantasia e della leggerezza. Tutto questo avviene in perfetta simbiosi con Django nell'agone di una essenzialità assoluta. Si ha la sensazione che ogni accordo, ogni nota siano al loro posto e non ci sia nulla da aggiungere. Giusto ogni assolo nella sua brevità, ogni accento è funzionale al "mood" della musica. In questo senso è come se non si trattasse di improvvisazione ma che ci fosse un artefice che abbia piazzato ogni nota tra gli spazi di un pentagramma a disposizione degli esecutori..

Ed infine non manca la cosa più importante, l'ingrediente essenziale del buon jazz: lo swing. Lo definirei però, prendendo a prestito il titolo di un classico brano del quintetto, uno swing "minore". Cerco di spiegarmi.. Tornando a Louis Armstrong e considerando i suoi immortali brani con gli "Hot Five" e "Seven" ne avvertiamo la drammaticità, la sanguigna propulsione, la virile dignità. Se ascoltiamo Count Basie o Benny Goodman distinguiamo il "drive" adatto al ballo e la carica di ottimismo dopo la "Grande Depressione" del 1929. Se ci accostiamo alla musica di Grappelli e Reinhardt, pur riconoscendo uno swing letteralmente sbalzato come su un bassorilievo, non possiamo non apprezzarne la grazia sottile, una specie di malinconia stemperata in un sorriso: uno swing minore mai gridato ma semmai suggerito.

Ho voluto cominciare dal generale prima di soffermarmi sul particolare di questa irrinunciabile "Retrospective" che copre tutta la carriera di "manouche" dal 1934 al 1953. Ho "riascoltato per voi" non un singolo album (..per forza: negli anni 30 la musica si ascoltava sui "78 giri"!) ma una antologia. Sto anche cercando di dimostrare che questa musica particolare non creò scuole stilistiche né proseliti. Senza Django nessun altro l'avrebbe estratta dal cilindro magico. Eppure è nata in qualche parte del vecchio continente, non si sa bene dove.. In Belgio dove Reinhardt ebbe i natali nel 1910? E' certo che molto tempo prima il suo popolo dalle lontane Indie giunse ai Balcani e poi in tutta Europa, in Germania, nelle Fiandre sino all'Alsazia Lorena. E' certo che in questa musica soffia un vento migratore, un pout-pourrì di etnie bastarde. E poi il caso volle che in un incendio della sua roulotte Django si ustionasse gravemente la mano sinistra: due delle dita rimasero rattrappite e del tutto inutilizzabili. Fu un incidente che avrebbe stroncato ogni velleità di suonare a qualunque chitarrista. Django invece si inventò una tecnica personale adatta a quell'anatomia menomata. Il risultato è uno stile straordinario e inimitabile che sembra eseguito da 10-50-100 dita! Un altro mistero..

Il mistero più grande è però lo stesso di sempre: come è stato che tutti questi ingredienti che presi da soli avrebbero potuto anche non approdare a nulla siano diventati grande, anzi grandissimo jazz! Ripeto non ci furono allievi, solo qualche moderno strumentista che ne ha riprodotto la tecnica o qualche postilla nell'impostazione ritmica del nostro Paolo Conte.

La disamina che ho sviluppato ben si adatta al primo dei tre CD del cofanetto che copre il primo periodo della carriera di Django. Come dirò tra poco c'è dell'altro. Ma nella prima formazione del "Quintette du Hot Club de France" c'è già l'essenziale. Il libretto che accompagna i CD descrive con semplicità e competenza ogni singolo brano. Oltre a "St Louis blues" cito ancora "Minor swing"("..swing alla francese a un tempo malinconico e gaio, focoso e sofisticato") un successo anche commerciale, oltre che un capolavoro del jazz. Notevole "My serenade" dove si può ascoltare la classe rilassata dell'artista in un tempo più lento ed un "mood" più nostalgico. Ed ancora le reinvenzioni di celebri standards dell'epoca quali "Dinah", "Limehouse blues", "Charleston", "Honeysuckle rose" ed altri ancora trasformati dalla fantasia degli esecutori in qualcosa d'altro.. In particolare va segnalata la reinvenzione dell'immortale "Night and day" di Cole Porter di cui peraltro non va dispersa la struggente ispirazione ed il garbo impareggiabile. Appare stupefacente la profondità di "Improvvisation n° 2", composizione ed esecuzione solitaria di Reinhardt, vero trattato empirico di chitarra che ha consumato le dita di ogni volenteroso riesecutore. Django la materializzò dal nulla dotata di "cette coleur Reinhardtienne inimitabile" di cui parlano le note del libretto..

Il secondo CD ci porta nel cuore degli anni 40. Per un certo periodo Grappelli si allontana dal quintetto. Non vale la pena cercare sostituti e Django opta per diverse soluzioni. Compare principalmente il colore e il timbro del clarinetto, ma talvolta ci sono altre ance e persino una batteria "alla Gene Krupa" che finora sembrava inopportuna. Cito ancora le note del libretto: "Django traccia naturalmente una sua evoluzione dallo swing al be bop senza rinnegare la specificità del proprio stile". In effetti agli inizi degli anni 40 egli dimostra di avere ascoltato i jazzisti americani di stile swing. Ecco la batteria già citata (mi riferisco specialmente a "Les yeux noirs"), ecco il clarinetto di Hubert Rostaing che ricalca un po' Sidney Bechet, un po' lo stesso Benny Goodman. Un altro brano che ha a che fare con lo swing fin dal titolo è "Swing 42", stupefacente composizione di una leggerezza eterea al suono del quale i francesi, in piena occupazione nazista, poterono ballare i ritmi "americani". Né manca in "Blues en mineur" la formula del duo che ha il pianoforte di Ivon de Bie da un lato e Django dall'altro a far piangere le corde della chitarra sotto le sue dita e che suona lui stesso il violino con stile peraltro originalissimo. Più in generale il clima oscilla tra una diafana gaiezza ed una coloritura talvolta "Felliniana" (alla Nino Rota di là da venire..) nell'arrangiam
ento prezioso per chitarre e due clarinetti di "Memoir de mes reves". Ma sono solo alcune delle tante sfaccettature della musica: Django divaga con assoluta naturalezza negli arrangiamenti così come sulle armonie. "Blues clair" in poco più di tre minuti contiene un manuale di tecnica improvvisativa: rulli accordali granitici, armonie intricate e scale ai limiti dell'eseguibilità, effetti di tensione delle corde miranti alla produzione delle note blues, "svisate" a tempo doppio o dimezzato ecc.: tutto declinato con scioltezza divina! In questo II° volume troviamo anche l'orchestra jazz sullo sfondo della chitarra solista, viene reinventata altresì persino la "Marsigliese" per festeggiare (da Londra!) la fine della guerra e il ritorno di Stéphane Grappelli. Ci sono i primi echi "Be bop" allorché Django adatta con facilità innovativa la sua tecnica alla chitarra elettrica. Ci sono i soliti standards americani in stile "Douce France". Ci sono persino Grieg e Debussy, quest'ultimo sotto forma di "ballabile" in tempo "slow". E poi c'è "Nuages". Ci vorrebbe un articolo a parte. Io lo definirei "incatalogabile".. Ancora una volta si sconfina nel mistero!

Il terzo CD copre gli ultimi sei anni della carriera e purtroppo della vita del chitarrista morto di ictus cerebrale nel 1953. Comprende alcune incisioni col violinista compagno di sempre ed ancora capolavori ma soprattutto si caratterizza per la ricerca di sonorità aggiornate all'estetica del jazz moderno. Il suo stile si adatta allo strumento elettrico divenendo più meditativo. Si manifesta l'influenza (per altro reciproca) del chitarrista americano Charlie Christian che in quel periodo, a partire dalla partecipazione a gruppi swing né andava mutuando lo stile verso gli orizzonti del be bop, "from swing to be bop" per l'appunto. In "Topsy" ciò è del tutto evidente. In "Dinette" viene duplicata l'abitudine dei "boppers" di sfruttare i giri accordali di precedenti standards per sovrapporvi nuovi motivi melodici (in questo caso è "Dinah" il brano originario). Ancora in "Daphne" siamo a cavallo tra la modernità ed il più classico stile Reinhardtiano. In "Place de Brouckère" l'uso di una rudimentale distorsione garantisce energia ad una improvvisazione dalle forti tinte "blues". In "Nuits de St Germane de Prés" ci si avvicina molto al "sound" d'oltre oceano anche grazie all'uso di tromba e sax. Non trascurerò un altro brano eccezionale quel "Troublant boléro" che traendo spunto dal ritmo reso famoso da Ravel da esito ad una musica "oscillante come un palmizio", come direbbe Pao
lo Conte. Io la immagino come accompagnamento sonoro alla sensuale danza di Josephine Baker in un locale notturno parigino. Come possiamo vedere la musica che ho descritta è quanto mai eterogenea, ma anche in questi ultimi esempi non va mai persa l'impronta "manouche" indefinita e inconfondibile ancora dopo vent'anni..

Conclude degnamente la retrospettiva l'ultima commovente versione di "Nuages" per chitarra elettrica e senza violino ma con un "feeling" immenso. E' un addio..Di lì a poco Django avrebbe posato per sempre la sua chitarra "manouche".

Mario Corsini

 
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